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Milano il 19 aprile si presenta il libro “Lingua di Cane”

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Si presenta il prossimo 19 aprile persso l’Universitàdel Sacro Cuore a Milano il Libro”Lingua di Cane”

CREDITS
con Franz Cantalupo Sara D’Angelo Elisa Di Dio Noa Di Venti Salvatore Galati Mauro Lamantia
drammaturgia Sabrina Petyx regia Giuseppe Cutino
scena e costumi Daniela Cernigliaro movimenti di scena Mariagrazia Finocchiaro disegno luci Marcello D’Agostino
assistente scene e costumi
Luca Manuli
Assistente alla Regia Simona Sciarabba musiche Mario Incudine Francesca Incudine Sergio Beercock Henry Purcell Max Ricther foto di scena Totò Clemenza – Salvatore Battaglia organizzazione generale Angelo Di Dio produzione L’Arpa- Compagnia Residente Teatro Garibaldi Di Enna con il sostegno dell’Università Kore di Enna e dell’Assessorato Regionale al Turismo e allo Spettacolo
NOTE DI REGIA
“Disperso che vuol dire? Che uno è vivo oppure no? Nel mondo si vive o si muore, giusto? Ma sparire no, quello ti giuro io che è impossibile. Manco la magia ci può! Perché il mondo, quello una palla è e uno da qualche parte su sta palla deve essere!” Lingua di cane è la lingua di chi non ha voce per parlare, di chi ansima, di chi elemosina un pezzo di pane, di chi non merita un rispetto, una vita e una morte da uomo, come se uomo non lo fosse mai stato. Lingua di cane è, in realtà, un pesce di mare della famiglia Pleuronectidae, una sogliola, che vive adagiata sui fondali sabbiosi, piatta come una lingua di cane che sta lì, invisibile, con le sue braccia aperte, come uno di quei tanti morti che in quello stesso fondale invisibili lo sono sempre stati e che, forse, sono nati per essere invisibili, per attraversare una vita come si attraversa un deserto, senza speranze, senza possibilità. Esseri umani invisibili, senza nome, vissuti su un confine oltre cui la morte diventa un’appuntamento più che una fatalità. Una fatalità destinata a chi ha creduti di volare e un istante dopo si è ritrovato sotto il mare, a chi è si è messo in cammino ma è come se non fosse partito mai. Ed è di questi viaggi senza un approdo, di questi desideri, di queste speranze, che non sono diverse da quelle di ciascuno di noi, che vogliamo parlare. Noi, che questi viaggi e queste morti le abbiamo conosciute, provate, che le abbiamo incise nel nostro albero genealogico, che abbiamo una storia fatta di croci da onorare, in Belgio, in America, in Australia, in Africa e persino in Italia. Noi che abbiamo conosciuto il destino di chi non è niente di più che una lingua di cane, ci troviamo ora a contare altri morti che non ci appartengono, per i quali non abbiamo responsabilità, per i quali allarghiamo le braccia prima che ci venga la tentazione di protenderle in avanti. Lingua di cane attraversa, sogni, storie, paure, amicizie, inimicizie, addii, tradimenti e speranze, dando voce a storie semplici e pensieri che non è difficile pensare me doloroso ammettere, perché non sempre la verità è scontata, non sempre la verità è una sola e semplice da raccontare, perché non sempre la verità c’è e a volte è così brutta da non volerla guardare.
Giuseppe Cutino

Scritto da Paolo Randazzo
“Lingua di Cane” non è il solito, ennesimo, spettacolo realizzato prendendo spunto e ispirazione dalla attuale tragedia dei migranti, dalla vicenda concretissima e di centinaia di migliaia di migranti che, provenendo dal Medio-Oriente o dall’Africa, attraversano il Mediterraneo su decrepiti barconi o su vecchi canotti d’ogni risma e rischiano la vita per passare in Europa, per venire da noi a lavorare e far fortuna. Sostanzialmente è il soggetto anche di questo spettacolo, ma ciò che ad esso dà respiro e sostanza d’arte è la riflessione autentica sul rapporto tra morte e desiderio. Scriviamo dello spettacolo che è andato in scena il 2 e il 3 dicembre nel Teatro Garibaldi di Enna a firma di Sabina Petyx (in veste di drammaturga) e di Giuseppe Cutino (regista) e con un intenso lavoro di laboratorio con gli attori (Franz Cantalupo ed Elisa Di Dio, insieme con i giovani Sara D’Angelo, Noa Di Venti, Mauro Lamantia e Rocco Rizzo) della compagnia de “L’Arpa”, residente in quel teatro e produttrice dello spettacolo. Una riflessione sul rapporto tra morte e desiderio, si diceva: sì, è questo il nodo drammaturgico che innerva il singoli quadri, i dialoghi, i movimenti di scena, i materiali e i colori, le musiche, le storie e le mille sfumature, di questo spettacolo. Occorre chiarire meglio: si tratta di due polarità inscindibili, la morte e il desiderio, due polarità attraverso cui passa naturalmente l’esperienza di vita di tutti gli uomini e le donne, ma proprio per questo è apprezzabile il lavoro di Petyx e di Cutino i quali, pur dotati di solido mestiere e di un linguaggio artistico riconoscibile ed elaborato in anni di lavoro insieme, non perdono nulla della fatica, della freschezza, dello stupore, della profondità del lavoro laboratoriale sulla tragedia delle migrazioni. Non perdono nulla, anzi sanno iscrivere queste vibrazioni emotive nel quadro di uno spettacolo che è concepito come “povero” e che invece appare dotato di una propria necessità e ricco d’umanità. Talmente ricco d’umanità, di capacità empatica e di senso da potersi permettere il lusso di sfidare la retorica. La retorica buona e quella cattiva, la retorica politica d’ogni tipo e indirizzo, le menzogne dettate da pregiudizi razzisti la e retorica dettata da ideali positivi e buoni sentimenti. Non è affatto detto, del resto, che la retorica sia in sé stessa qualcosa di falso, di negativo: nella realtà esistono le emozioni e colorare il linguaggio di emozioni non è detto che significhi in sé semplificare o mentire, anzi talvolta appare necessario se si ha voglia di raccontare l’essenziale della realtà. Nella vicenda attuale delle migrazioni c’è di certo tutta la violenta durezza dell’economia e ci sono le guerre, ci sono le necessità e le motivazioni per cui si muovono i popoli (le politiche, le religioni, le tradizioni, i saperi, le tecniche) e alla fine, nella parte più profonda della vita di ciascun migrante, ci sono i desideri e le paure. Il desiderio di dare un compimento alla nostra vita, innanzitutto, un compimento positivo, una forma che ci rispecchi in superficie e nel profondo, nella nostra essenza unica e personale; e la paura, non tanto la paura di morire quanto la paura di scomparire, proprio scomparire (magari inghiottiti e consumati dal mare, senza volti, senza nomi, senza storie personali), scomparire nella massa dei morti come la cosiddetta “neonata” (piatto molto amato in Sicilia e realizzato con miriadi di pesciolini appena nati), come quei pesci, quelle sogliole dette “Lingua di cane” che stanno nel fondali marini appiattendosi sulla sabbia fino a diventare invisibili, fino a scomparire. Ecco la paura più grande, quella che, al di là della storica di ciascuno, ti stringe il cuore al solo pensarci, la paura di scomparire senza averlo mai deciso.
LINGUA DI CANE, LA VITA SOSPESA DEI DISPERATI SENZA NOME
di Domenico Trischitta
RECENSIONI E’ di poetica bellezza la viscerale lotta per l’emersione dai tragici destini della migrazione di “Lingua di cane”, messinscena di Giuseppe Cutino, su testi di Sabrina Petyx, che ha aperto la stagione del Garibaldi di Enna, diretto da Mario Incudine. In scena sei attore ennesi per la prima produzione, realizzata con la Compagnia dell’Arpa, del teatro comunale
“Vietato l’accesso a cani e meridionali” non è un riprovevole annuncio razzista, ma una prassi nei primi anni Sessanta nel Bel Paese italico, che attingeva copiosamente dalle masse operaie meridionali, ad un secolo dall’Unità d’Italia. L’avvocato Agnelli, per farli sentire meno soli e per creare buonumore nei casermoni della Fiat, portò alla Juventus Petruzzu u’turcu Anastasi, Beppe Furino e Franco Causio. Visconti nel ’63 ne fece un film memorabile, “Rocco e i suoi fratelli”, nel ruolo di protagonista Alain Delon che già aveva calcato i set siciliani ne “Il gattopardo”. Il pregiudizio razziale è una malattia mentale, una ribellione dell’io nei confronti del diverso, lo stesso che ti implora a lavarti il parabrezza ai semafori, che ora si affianca a colui che è appena scampato alla morte. Frotte di ragazzi di colore che affollano gli incroci delle città siciliane. Prova a guardarli dritto negli occhi, ne vedi il blu nero del mare che per giorni e notti si è rispecchiato nella loro iride opaca. Se per qualcuno tutto questo è business, per alcuni, per fortuna, è struggimento creativo che commuove il cuore. Per esempio, solo chi non ha capito che “Fuocammare” di Gianfranco Rosi non è un documentario non potrà apprezzarne la poetica bellezza. E di poetica bellezza parliamo dopo avere assistito a “Lingua di cane” di Giuseppe Cutino e Sabrina Petyx, che ha inaugurato la stagione del Teatro Garibaldi di Enna, con la direzione artistica di Mario Incudine, spettacolo teatrale prodotto dalla Compagnia dell’Arpa e che mette insieme i migliori talenti ennesi nella prima produzione, tutta incentrata sui talenti locali, che il teatro comunale ennese realizza. Per ironia della sorte all’interno del foyer del Teatro Garibaldi campeggia ancora un pensiero di Mussolini, la storia scorre e quello che ci racconta oggi riguarda biblici viaggi sulle rotte del benessere, la falsa America dei nuovi poveri. Il regista alcamese-palermitano Cutino ne racconta visivamente gli orrori, sulla ragnatela drammaturgica ordita da Sabrina Petyx. I sei attori ennesi sulla scena, Franz Cantalupo, ideatore del progetto, Sara D’Angelo, Elisa Di Dio, Noa Di Venti, Mauro Lamantia e Rocco Rizzo, sono le lingue di cane (sogliole) che a cerchi concentrici restringono il Mare Nostrum. E lì che ci fanno vedere la morte, come quella dei cadaveri periti in mare, braccia aperte come Cristi e occhi spalancati che sembrano respirare come se fossero polmoni. Perché solo in mare si è dispersi, anzi disintegrati dal mondo: “Disperso che vuol dire? Che uno è vivo oppure no? Ma sparire no, quello ti giuro io che è impossibile. Manco la magia ci può! Perché il mondo, quello una palla è, e uno da qualche parte su sta palla deve essere!” si chiede uno dei protagonisti. Lo spettacolo è sospeso su una dimensione onirica che emerge per farsi reale, come dall’inconscio, e ne svela la tragedia. Fratelli di una volta che sembrano sovrapporsi a quelli odierni, slang siculo americani che si mischiano a slang siculo arabi, perché non c’è nessuna differenza. La regia di Cutino non lascia nulla al caso e integra in maniera pertinente le belle musiche che fungono da climax per innescare i quadri colorati dai bravi attori, in un apparente disordine di assoli improvvisati che diventano il culmine della bellezza scenica. Per una tragedia epocale che non possiamo ignorare.
“PRIMAVERA DEI TEATRI” FA 18: CUTINO E BABILONIA
Di Tommaso Chimenti
Lingua che è incipit e soglia, sosta e prolungamento, scivolamento e consonanza, caduta e risalita nel lavoro di Giuseppe Cutino, regia, e Sabrina Petyx, drammaturgia. “Lingua di cane” ci porta al “Cuore di cane” diBulgakov. Pezzi, muscoli, organi. Son quelli che ci vogliono per sopravvivere, per tentare almeno di farlo. È anche un cercare di parlare di un fenomeno, quello deimigranti, sul quale in questi ultimi anni, anche e soprattutto in teatro, si è detto tutto ma sempre, o nella quasi totalità dei casi, in maniera diretta, dritto per dritto, raccontando l’orrore. Però, lo sappiamo, il teatro ha bisogno della metafora, del simbolico, del detto tra le righe, senza riproporre la cronaca, senza rincorrere la realtà che è molto più potente di qualsiasi racconto. A meno che non si scelga un’altra strada. Quella di una poesia cruda (certo la retorica è a tratti inevitabile) che coinvolge, spinge, sposta, dilania, riprende, recupera, porta in superficie sensazioni e situazioni, perfino corpi. E sono questi corpi (i siciliani della Compagnia dell’Arpa; in sei frontalmenteemmadantescamente) ammessi a questa messa di ammassi di stracci, abiti galleggianti come fiori di loto in uno stagno, che non salvano ma affossano, pesanti d’acqua imbrigliano, s’attorcigliano agli arti impedendoti il nuoto e la risalita. Boccheggiano, i respiri si fanno profondi e intensi e sempre più la lingua vira verso un ennese stretto, i loro movimenti sono onde che sbattono sulla battigia, riflussi in un andare e tornare di fiordi e gorgoglii che forma curve della schiena e di polmoni, una danza macabra come un elastico che prende la rincorsa, si schianta e ritorna al suo posto. Un teatro fisico la cui portata s’ingigantisce, monta come panna, suda in questi frammenti che tolgono il fiato, affannano l’esofago in questa lotta feroce per la sopravvivenza. È un vortice quello che fluttua di vestiti e cenci che sanno di cimitero, Diluvio Universale e Olocausto, che sa di gioco crudele e fisarmoniche, come uscire da un bozzolo e nuovamente proteggersi come fa il riccio o l’armadillo, si annidano e si rannicchiano in un cantato-nenia-urla-preghiera soul e porosa. Vengono alla mente la “Venere degli stracci” di Pistoletto ma anche “L’Isola dei morti” di Bocklin e per finire il continente di rifiuti e plastica che staziona e s’amplia nell’Oceano Indiano. Le domande escono senza trovare riparo né soddisfazione, la barca è alla deriva (la loro reale? Noi, l’Europa metaforica?). La morte peggiore non è il decesso ma la sparizione. Se sei disperso, e non classificato come morto, non puoi attingere al senso di colpa, alla pietas, alla consacrazione, alle lacrime, alla perdita, alle cerimonie, ai fazzoletti, all’indignazione. Lo sapevano bene i generali argentini.
FESTIVAL PRIMAVERA DEI TEATRI A CASTROVILLARI 18ª EDIZIONE DAL 30 MAGGIO AL 4 GIUGNO 2017
a cura di Gigi Giacobbe
Lingua di Cane diSabrina Petix, prodotto da L’Arpa Compagnia Residente e dal Teatro Garibaldi di Enna, chiude al Teatro Sybaris la 18ª edizione del Festival Primavera dei Teatri. Lo spettacolo è entusiasmante non tanto per il tema che riguarda i migranti, quanto per l’interpretazione dei sei interpreti (Franz Cantalupo, Sara D’Angelo, Elisa Di Dio, Noa Di Venti, Mauro Lamantia, Rocco Rizzo) che la minuziosa regia di Giuseppe Cutino ha esaltato nei loro movimenti da teatro-danza che ricordava la grande Pina Bausch. Sulla scena nuda col palcoscenico ricco di indumenti, i protagonisti parlano ognuno per proprio conto come se ciò che dicono riguardi se stessi e non altri. Una pioggia improvvisa esalta i colori cangianti dei lenzuolini plastificati metà argento metà oro, diventando un mare mosso quando, opportunamente illuminati, vengono fatti cadere sotto il proscenio. Si spogliano, si rivestono sul palco che diventa quasi un grande barcone, gettando poi in aria, con un bell’effetto visivo, gli indumenti che hanno accanto a loro. I morti li chiamano dispersi. La vita dura poco e la morte dura sempre. Vanno via alla fine facendo dei fagotti degli abiti rimasti, e sul fondo della scena appare una grande vela tappezzata di stracci che ha la forma triangolare della Sicilia. Scene e costumi erano di Daniela Cernigliaro, i movimenti di scena di Mariagrazia Finocchiaro, il disegno luci di Marcello D’Agostino.

Repubblica.it – PALCO REALE
GIBELLINA, IL NAUFRAGIO DEGLI INVISIBILI RACCONTATO SENZA ENFASI E CON LEGGEREZZA di Guido Valdini
Un viaggio senza approdo, il naufragio degli invisibili: quello degli esseri umani che partono e non arrivano mai, per i quali non è data neanche la morte come momento di pietoso omaggio, ma solo la scomparsa nel nulla. È l’epica tragica che accomuna migranti del mare e della vita, ma anche la metafora del volo impossibile, del desiderio infranto sullo scoglio fatale di un mondo senz’anima. È Lingua di cane, l’ammaliante spettacolo di Sabrina Petyx (drammaturgia) e Giuseppe Cutino (regia) in scena alle Orestiadi di Gibellina dirette da Claudio Collovà, frutto di un lavoro laboratoriale condotto dai due autori al “Garibaldi” di Enna con un gruppo di attori che hanno fatto un percorso di migrazione inverso. Anche questo un segno connaturato al tema, ma per una volta trattato senza enfasi emotiva, con straniante leggerezza, un’accorta trama simbolica e il gusto ritmico del teatro. La “lingua di cane” del titolo allude sia all’estrema fatica dell’animale, sia al nome di un pesce piatto come una sogliola che abita i fondali sabbiosi; in entrambi i casi, siamo ai confini dell’esistenza senza identità, la stessa di questo manipolo di sei vite in scena, insieme migranti e non, che s’interrogano sul senso del loro cammino senza speranza, sussurrano fiducia e paure, si scambiano diversità e somiglianze con angosciata naturalezza. Vagano tra l’alto e il basso di una cattiva fortuna: tra l’utopia di vedere la terra dal cielo e l’orrore di ritrovarsi negli abissi. Una lotta strenua di corpi che, su una distesa di stracci, si difendono dalle tempeste, respirano in apnea, cadono, si rialzano e scivolano come pesci in una barca che non c’è, si distendono in una disperata danza a braccia levate tra i flutti, cadenzata sull’Estatedi Vivaldi, coperti da fragili teli argentati che prendono la forma delle onde, il rumore del vento e i colori del sangue. Prima di ammucchiare sul proscenio i loro poveri fagotti dinanzi ad una gigantesca vela triangolare (la Sicilia) fatta di camicie colorate che si staglia nel folgorante finale. La scrittura sobria e sonante di Sabrina Petyx, anche se non sempre strutturata, procede per frammenti di tensione, orchestrata con vibrante efficacia dalla regia di Cutino, che si avvale del canto popolare siciliano di Mario e di Francesca Incudine, delle pertinenti scene di Daniela Cernigliaro, del disegno luci di Marcello D’Agostino, e soprattutto dell’accesa sensibilità degli attori: Franz Cantalupo, Sara D’Angelo, Elisa Di Dio, Noa Di Venti, Mauro Lamantia, Rocco Rizzo.

PIU’ DI UNA LINGUA SUL FONDO DEL MARE
di Marzio Badalì «Disperso che vuol dire? Che uno è vivo, oppure no? Nel mondo si vive o si muore, giusto?». Sono alcune delle domande che aprono lo spettacolo Lingua di cane di Giuseppe Cutino e Sabrina Petyx, andato in scena il 10 marzo 2018 all’ITC Teatro di San Lazzaro nell’ambito della sesta edizione di Interscenario. Il progetto, strettamente legato al Premio Scenario, presenta gli spettacoli vincitori dell’ultima edizione insieme alle nuove proposte delle compagnie vincitrici delle edizioni precedenti (nel 2003 la compagnia M’Arte – movimenti d’arte di Cutino/Petyx ha già vinto con lo spettacolo Come campi da arare). Sono domande retoriche, quelle pronunciate dagli attori, spesso tautologiche, che non ricevono e non riceveranno mai nessuna risposta. Tre uomini e tre donne si trovano schierati in riga di fronte al pubblico, immersi in una luce blu che richiama il mare. Ricordano i condannati al di là dell’occhio vuoto dei fucili, ma forse il plotone di esecuzione stavolta non sparerà, non ce n’è bisogno, perché la loro condanna è l’oblio. I protagonisti di questa storia sono già morti, come i tanti invisibili che spariscono risucchiati tra le onde, granelli di sabbia spazzati via dalla corrente. Lingua di cane non è uno spettacolo che parla soltanto delle vittime dell’emigrazione, di quelle 15 mila anime che dal 2014 a oggi sono state inghiottite da una striscia blu chiamata Mar Mediterraneo. Lingua di cane è un flusso di parole e riflessioni, quasi esistenziali, ricordi personali e suggestioni che si mescolano insieme, intrecciandosi con i corpi dei performer in scena. Il testo nasce da un lavoro di creazione collettiva, dall’esperienza di un gruppo di attori che condividono origini comuni ma percorsi differenti. Migranti anche loro, ciascuno a suo modo, sono stati richiamati a Enna, città natale, per conto della Compagnia dell’Arpa, che li ha coinvolti in una residenza artistica al Teatro Garibaldi. All’improvvisazione degli attori è seguita poi l’elaborazione drammaturgica di Sabrina Petyx e il lavoro di regia effettuato da Giuseppe Cutino. In questo spettacolo la lingua si fa carne, la carne dei corpi, ma anche la carnalità di una lingua madre, materica e magari incomprensibile, viva e pulsante nel dialetto siciliano – più precisamente ennese – con cui spesso si esprimono gli attori in scena: Franz Cantalupo (ideatore del progetto), Sara D’Angelo, Elisa Di Dio, Noa Di Venti, Mauro Lamantia e Rocco Rizzo (sostituito in questa replica da Salvatore Galati) sono delle “lingue di cane”, delle sogliole, come la Glyptocephalus cynoglossus, che vivono appiattite sui fondali. Ma come si può vivere in fondo al mare? Tra i personaggi c’è anche chi ha provato a respirare sott’acqua, ma non è bastato. Nell’allestimento di Cutino l’uso del corpo assume un’importanza fondamentale, gli attori si fanno massa magmatica, si respingono, si trovano in una condizione di precario equilibrio, dove il disperato tentativo di restare a galla e la lunga apnea che fa bruciare i polmoni si trasformano in una danza sottomarina, la danza dei pesci; dove i mugolii rassegnati dei corpi ammassati su un barcone alla deriva creano una trama sonora, il vano tentativo di vincere la solitudine di un destino già segnato. Da Purcell al Vivaldi ricomposto da Max Richter, la musica che accompagna lo spettacolo subisce virate improvvise e ci riporta nell’entroterra siciliano con la voce di Francesca Incudine. La scenografia è semplice, costituita unicamente da abiti dismessi, sparpagliati sulla scena come tanti corpi morti, i resti galleggianti di un relitto dopo un naufragio. Eppure la scena appare viva, si trasforma sotto gli occhi del pubblico. I vestiti diventano fagotti che simboleggiano la partenza ma non l’arrivo, o sacchi di sabbia utilizzati per arginare una falla. Vengono lanciati verso l’alto, nella speranza di raggiungere il cielo, perché in mare non c’è paradiso, in mare non c’è riposo e non si è più niente, perché «anche per morire ci vuole culo». Alla fine dello spettacolo gli indumenti si dispiegano in una vela, mentre una struttura di legno traccia con una linea la silhouette di una nave. Un disegno stilizzato e dondolante in moto perpetuo ne esprime il movimento, la navigazione lungo una rotta che non sempre vede un’altra riva. L’illuminazione è essenziale ma efficace, il blu dei fondali marini all’occorrenza si tinge di rosso e l’elemento dell’acqua è sempre presente anche attraverso un gioco di riflessi creato dalle luci che danzano e rimbalzano contro le coperte isotermiche usate dagli attori. Queste compaiono dal nulla, si moltiplicano come per contagio e attraverso un sapiente uso degli oggetti e dei corpi in scena si fanno immagine e suono, ora onde del mare ora riparo e pioggia battente.
Durante lo spettacolo i personaggi subiscono una progressiva svestizione che diventa svelamento: pesanti maglioni di lana, cappotti, giubbotti, scompaiono poco alla volta, quasi dissolti da una forza superiore. Gli attori rimangono in felpa, poi in maniche di camicia e alla fine anche questa si sbrindella, trasmuta, mostrando lembi di pelle: ancora una volta soltanto corpi. Non esente da punte di ironia che strappano un sorriso, talvolta amaro, Lingua di cane avanza una riflessione su un tema delicato come quello delle morti in mare senza alcuna pretesa di agire sul pubblico, senza alcun tentativo di spingere a compassione lo spettatore. Attraverso l’abile uso di metafore la storia racconta la fragilità di alcune vite e la paura di scomparire, di una morte che morte non è, ma solo sparizione, come il novellame del pescato nel Mar Mediterraneo, quella che in Sicilia è conosciuta con l’appellativo di “neonata”, un nome che è già moltitudine indefinita, senza alcuna individuale identità, poiché basta una cucchiaiata a portarsi via chissà quante vite.

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